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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Diritto della concorrenza UE e principio del ne bis in idem – Secondo l’Avvocato Generale Wahl un’autorità antitrust nazionale può sanzionare un’impresa sulla base dell’applicazione simultanea del diritto della concorrenza nazionale ed europeo, ma non si può comunque limitare la tutela accordata dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza

Il principio del ne bis in idem deve essere applicato qualora, in un’unica decisione, un’autorità antitrust nazionale abbia inflitto a un’impresa un’ammenda per comportamenti anticoncorrenziali sulla base dell’applicazione simultanea di regole di concorrenza nazionali e dell’UE?

Questo è il quesito affrontato nelle proprie conclusioni rilasciate lo scorso 29 novembre (Conclusioni) dall’Avvocato Generale Wahl (AG) con riferimento alla questione pregiudiziale sollevata alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CdG) da parte della Corte Suprema Polacca.

La questione pregiudiziale traeva origine da una controversia tra l’autorità nazionale della concorrenza polacca (Prezes Urzędu Ochrony Konkurencji i Konsumentów, ANC) e una compagnia assicurativa polacca (Powszechny Zakład Ubezpieczeń na Zycie S.A., Impresa interessata), sanzionata dalla prima nel 2007 per aver posto in essere, a partire dal 2001, un abuso di posizione dominante sul mercato delle assicurazioni collettive professionali sulla vita in Polonia. L’ANC aveva ritenuto tale comportamento in violazione sia della normativa antitrust della Polonia, sia dell’art. 102 TFUE, potendo tale pratica ripercuotersi negativamente sulla possibilità per gli assicuratori stranieri di accedere al mercato polacco, con conseguente pregiudizio per il commercio tra gli Stati membri. Sulla base di tali considerazioni, l’ANC infliggeva all’Impresa interessata un’ammenda di oltre 50 milioni di zloty polacchi, che a sua volta si componeva di due importi, calcolati separatamente: (i) il primo relativo alla violazione della legge nazionale polacca in materia di concorrenza (a partire dal 2001); e (ii) il secondo relativo alla violazione dell’art. 102 TFUE (contestata a partire dal 2004, anno di adesione della Polonia all’UE).

L’Impresa interessata impugnava quindi la decisione innanzi alle corti nazionali, lamentando come entrambi gli importi dell’ammenda complessivamente irrogata riguardassero la medesima condotta, per la quale sarebbe stata quindi sanzionata più volte in violazione del principio del ne bis in idem. Tale controversia è infine giunta innanzi alla Corte Suprema Polacca, la quale ha ritenuto di sollevare questione pregiudiziale alla CdG.

Nelle proprie Conclusioni, l’AG ha dapprima ricordato come il principio del ne bis in idem, che “…rappresenta indubbiamente una delle pietre angolari di ogni sistema giuridico fondato sullo Stato di diritto…”, risulti applicabile anche in materia di diritto della concorrenza, dal momento che si “…colloca in quell’area grigia tra diritto penale e diritto amministrativo…”. In secondo luogo, l’AG ha ricordato che, per l’applicazione del principio del ne bis in idem ai sensi dell’art. 50 della Carta di Nizza, è necessaria che sussistano sia (i) la ripetizione di procedimenti (bis), sia che essi siano relativi alla (ii) medesima infrazione (idem).

Nel caso in esame, l’AG non ha tuttavia ritenuto la decisione della ANC polacca in violazione del ne bis in idem in considerazione dell’assenza del requisito del “bis”, che richiede la sussistenza di più procedimenti paralleli. Nel caso di specie, l’AG ha sottolineato come l’ANC polacca avesse adottato un’unica decisione, infliggendo all’Impresa interessata un’unica ammenda (benché composta di due parti) sulla base dell’applicazione concorrente della legislazione nazionale antitrust e di quella UE. Secondo l’AG, la questione da definire nel caso in esame non attiene dunque ad una possibile violazione del principio del ne bis in idem ma piuttosto al rispetto del principio di proporzionalità nel calcolo della sanzione da comminare, che l’AG non ha comunque ritenuto violato nel caso di specie, avendo l’ANC correttamente tenuto conto sia degli effetti prodotti dalla condotta all’interno della Polonia, sia delle potenziali ripercussioni sul commercio tra Stati membri.

Particolarmente interessante è altresì la ricostruzione dell’AG del requisito dell’idem. Sul punto l’AG, pur riconoscendo come la giurisprudenza della CdG abbia nel corso del tempo elaborato tre criteri ai fini dell’applicabilità del requisito dell’identità dell’infrazione in materia di diritto della concorrenza (ossia, identità dei fatti, del contravventore e dell’interesse giuridico tutelato), ha invero sottolineato l’esistenza di una “certa tensione” tra tale triplice criterio applicato nell’ambito della legislazione in materia di concorrenza e gli altri settori del diritto dell’UE, rispetto ai quali non è richiesto, ai fini dell’applicabilità del principio del ne bis in idem, l’identità dell’interesse giuridico tutelato dalle diverse normative/procedimenti paralleli.

L’AG sembra quindi auspicare un revirement della giurisprudenza da parte della CdG, dal momento che “…il ricorso al principio del ne bis in idem non dovrebbe essere subordinato a criteri eccessivamente rigorosi…”, dovendo invece essere “…interpretato in maniera uniforme in tutti i settori del diritto dell’Unione…”, ivi compreso quello in materia di concorrenza.

Sarà ora interessante vedere come si pronuncerà la CdG su tale questione e, in particolare, se coglierà l’occasione per uniformare i criteri richiesti per l’applicazione del ne bis in idem in materia di concorrenza a quelli, meno rigorosi, previsti per i restanti settori del diritto UE.

Martina Bischetti
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Procedimenti antitrust e tutela del segreto professionale – La Commissione europea chiarisce il perimetro e le condizioni per il riconoscimento del diritto alla confidenzialità sulle comunicazioni scritte tra le imprese e gli avvocati esterni nel contesto dei procedimenti antitrust

In un recente documento pubblicato dalla Commissione europea (Commissione) sono stati chiariti i criteri e le modalità di trattamento delle comunicazioni scritte tra le imprese e i rispettivi avvocati nel contesto dell’acquisizione di documenti durante un procedimento antitrust, in particolare con riferimento alla confidenzialità delle informazioni ivi contenute.

In primis, come viene ricordato, la legislazione comunitaria non contiene disposizioni esplicite relative alla protezione delle informazioni coperte da segreto professionale. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte di Giustizia (CdG) ha stabilito che, al ricorrere di determinate condizioni, le comunicazioni scritte tra le imprese e gli avvocati sono da ritenersi riservate e non possono essere acquisite dalla Commissione nel corso di un procedimento antitrust. In particolare, tali sono tutte le comunicazioni tra i soggetti menzionati a condizione che: (i) siano effettuate allo scopo e nell’interesse dell’esercizio dei diritti di difesa in capo alle imprese; e (ii) avvengano tra le imprese e i rispettivi avvocati esterni. Al contrario, la Commissione ribadisce che le comunicazioni con gli avvocati c.d. in-house, ossia dipendenti delle imprese stesse, non sono coperte dalla riservatezza. Inoltre,  la CdG ha stabilito che la riservatezza si estende anche alle note che riportano il contenuto di comunicazioni privilegiate o ai documenti redatti al fine di ricevere o richiedere assistenza legale.

La Commissione, dopo aver ribadito i principi affermati dalla CdG in materia di c.d. legal privilege, ha fornito ulteriori dettagli relativi alla prassi seguita nell’attività di acquisizione dei documenti delle imprese durante un procedimento antitrust. Nello specifico, la Commissione ha chiarito che, secondo la sua interpretazione, non sono coperte da riservatezza e possono quindi essere acquisite: (i) le comunicazioni tra un’impresa e i legali di una terza parte; (ii) le comunicazioni tra un’impresa e un avvocato, qualora il documento sia rinvenuto negli uffici di un’altra impresa terza; (iii) le comunicazioni avvenute tra avvocati; e (iv) le comunicazioni avvenute tra l’impresa e altre figure professionali, quali consulenti o altri esperti.

Inoltre, la Commissione ha spiegato come sia onere dell’impresa dimostrare che un dato documento ricade nell’ambito della riservatezza e debba essere quindi sottratto all’acquisizione durante un procedimento. Non è infatti sufficiente la mera affermazione del carattere confidenziale delle informazioni, posto che l’impresa deve adeguatamente giustificare la propria richiesta spiegando, ad esempio, il contesto in cui è stato redatto il documento in oggetto, indicando la sua finalità e dando conto delle funzioni svolte dai soggetti che lo hanno inviato e ricevuto. Ciò tuttavia non impedisce ai funzionari della Commissione, in particolare nel corso di ispezioni nelle sedi societarie, di dare uno sguardo sommario agli elementi principali del documento sul quale viene reclamata la confidenzialità, ad esempio al layout generale e all’intestazione, per valutare l’accuratezza delle ragioni invocate dall’impresa a supporto della riservatezza delle informazioni contenute. Tale operazione può essere impedita nel caso in cui si dia conto dell’impossibilità di effettuare tale esame sommario del documento senza rivelarne il contenuto sostanziale. Tuttavia, qualora l’impresa non dia spiegazioni idonee a giustificare la necessità di mantenere riservati i documenti in oggetto, oppure quando tali giustificazioni si basano su presupposti di fatto manifestamente errati, i funzionari della Commissione potranno procedere alla lettura dei documenti o all’estrazione di una copia degli stessi.

Qualora persista un disaccordo tra la Commissione e l’impresa coinvolta sulla confidenzialità o meno di determinate comunicazioni avvenute con i difensori, si può aprire una procedura che prevede l’estrazione del documento in questione e il suo inserimento all’interno di una busta sigillata. In tal caso, la Commissione mantiene il controllo sul documento, senza tuttavia prenderne visione. Successivamente, la busta verrà portata presso la sede della Commissione, e la stessa inviterà l’impresa coinvolta ad esporre per iscritto le ragioni che giustificano le istanze di riservatezza avanzate. Qualora la Commissione non si ritenga soddisfatta, essa potrà informare l’impresa circa l’intenzione di rigettare l’istanza. Tuttavia, i funzionari non potranno aprire la busta prima dell’adozione di una decisione formale che rigetta l’istanza di confidenzialità. Avverso tale decisione, l’impresa può proporre un’impugnazione, richiedendone l’annullamento di fronte alla CdG ex art. 263 TFUE. L’impugnazione tuttavia non avrà effetti sospensivi: pertanto, qualora l’impresa voglia evitare la presa visione del documento da parte dei funzionari della Commissione, dovrà immediatamente fare istanza per l’adozione di misure provvisorie che dispongano la sospensione dell’efficacia della decisione di rigetto.

Infine, il documento si sofferma brevemente sui procedimenti in materia di concentrazioni, nei quali spesse volte vengono avanzate numerose istanze di riservatezza nel contesto delle richieste di documentazione interna che la Commissione invia alle parti per poter valutare l’operazione. In tali situazioni, alle parti è richiesto di specificare, in uno specifico formato tabellare, determinate informazioni circa il documento su cui viene fatta richiesta di confidenzialità (ad es. il mittente, il destinatario, l’oggetto generale, i passaggi su cui si invoca il segreto professionale etc.). A riguardo, la Commissione ha specificato che, al fine di assistere le imprese nei vari passaggi di tale procedura e nell’osservanza dei propri obblighi a fronte di tali richieste di informazioni, sono in preparazione delle linee guida sulle richieste di documenti interni nel contesto dei procedimenti per il controllo delle concentrazioni.

Leonardo Stiz
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Diritto della concorrenza Italia / Affidamento in-house e questione di costituzionalità – Il TAR Liguria rimette alla Corte la questione di costituzionalità dell’onere di motivazione imposto dal decreto attuativo della Direttiva sull’in-house providing

Con l’ordinanza del 15 novembre 2018, il TAR per la Liguria (TAR) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità sollevata durante un ricorso avverso una decisione del Comune di Alassio (il Comune) in materia di affidamenti c.d. in-house.

Nel 2017 il Comune aveva bandito una gara pubblica per la concessione di svariati servizi inerenti la circolazione stradale sul territorio, tra cui il servizio di gestione della sosta a pagamento. Andata deserta la prima gara, il Comune aveva dunque deciso di affidare direttamente e senza gara quest’ultimo servizio alla società GE.S.CO. s.r.l (GESCO), interamente partecipata dal Comune stesso. Avverso questa decisione aveva proposto ricorso S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico s.r.l. (SCT), allegando di fronte al TAR la violazione dei principî che disciplinano l’affidamento dei servizi in concessione, ed in particolare dei principî comunitari in materia del c.d. in house providing, ossia l’affidamento di tali servizi a società controllate dalla pubblica amministrazione stessa, lamentando il mancato soddisfacimento dell’onere della pubblica amministrazione di motivare adeguatamente la scelta di non ricorrere al mercato per la fornitura del servizio. Il ricorrente basava la sua contestazione sull’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Decreto), che ha recepito nel nostro ordinamento tali principî stabiliti dalla direttiva 2014/24/UE (Direttiva) avente ad oggetto le procedure per appalti e concorsi pubblici di progettazione indetti dalle pubbliche amministrazioni.

Nel decidere sulla vicenda, in primo luogo il TAR ha concordato con la qualificazione dell’affidamento di cui sopra come in-house providing, attesa la ricorrenza delle tre condizioni necessarie per ricadere in questa fattispecie, ovvero: (i) controllo dell’amministrazione aggiudicatrice sulla società affidataria del servizio, analogo a quello esercitato sui propri servizi; (ii) attività della società affidataria esercitata per almeno l’80% nello svolgimento dei compiti affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante; e da ultimo (iii) assenza di partecipazione diretta di capitali privati nella società affidataria. Il TAR ha ricordato che il Decreto stabilisce in capo alla pubblica amministrazione in parola l’onere di effettuare una valutazione che dia conto delle ragioni che fanno propendere per l’affidamento del servizio a un soggetto in house, nonché una ulteriore valutazione della congruità economica dell’offerta di tali soggetti, concludendo che tali valutazioni non erano state effettuate nel caso in discorso. Per converso, il TAR ha rilevato che simili oneri non si riscontrano nella disciplina prevista dalla Direttiva, identificando pertanto una significativa divergenza tra gli oneri disposti dal Decreto e quelli indicati dalla Direttiva. Per giunta, la Direttiva, esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati dall’amministrazione a una persona giuridica che soddisfi le tre condizioni proprie dell’in house providing appena ricordate, salvaguardando il principio di autorganizzazione degli Stati membri, e dunque la facoltà delle pubbliche amministrazioni di non ricorrere al mercato qualora ritengano di poter garantire un livello adeguato di servizi attraverso le proprie risorse.

Tale divergenza nelle discipline domestica ed europea risulta, a detta del TAR, problematica, in ragione del fatto che la legge di delega del Decreto, nel disporre l’attuazione della Direttiva, contiene il divieto del c.d. gold plating, ossi l’introduzione, in sede di recepimento della normativa, di oneri maggiori o più gravosi rispetto a quelli minimi stabiliti dalla disciplina europea.

Poiché, ai sensi dell’art. 76 della Costituzione, la funzione legislativa non può essere attribuita al Governo se non congiuntamente a parametri e criteri direttivi contenuti nella legge di delega, il TAR ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione normativa, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house “…delle ragioni del mancato ricorso al mercato…”, per avere acceduto rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega, e dunque, indirettamente, essere in violazione dell’art. 76 della Costituzione.

Un rinvio pregiudiziale che, se accolto, rischia di vanificare in buona parte il tentativo operato in passato di aumentare il livello di concorrenza nella prestazione dei servizi pubblici locali attraverso meccanismi di gara.

Riccardo Fadiga
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Legal News / Diritto della concorrenza e coordinamento tra autorità indipendenti – AGCM, Banca d’Italia e CONSOB sottoscrivono un protocollo d’intesa per favorire le iniziative di appalto congiunto

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), la Banca d’Italia (BdI) e la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) (congiuntamente le Parti) hanno sottoscritto un Protocollo d’Intesa per la definizione di strategie di appalto congiunte per l’acquisizione di lavori, servizi e forniture (Protocollo), che stabilisce le modalità di coordinamento necessarie per assicurare un’efficace programmazione delle iniziative di appalto congiunto. Al fine di favorire l’aggregazione della committenza  pubblica, funzionalmente al conseguimento di risparmi di spesa attraverso la standardizzazione dei fabbisogni, la creazione di economia di scala e l’aumento della concorrenza, il Protocollo disciplina le modalità attraverso cui le Parti possano valutare ed eventualmente stabilire l’opportunità di svolgere congiuntamente procedure di appalto per determinati lavori, servizi e forniture, e gestirne lo svolgimento. 
 
Il Protocollo prevede (i)  il regolare scambio di informazioni tra le parti; (ii) l’istituzione di un tavolo tecnico per lo scambio delle informazioni, la verifica della sussistenza di esigenze di acquisto comuni ed l’accordo delle modalità attuative dei singoli appalti; (iii) la redazione annuale condivisa di un “piano degli acquisti congiunti” riportante le iniziative di spesa da attuare congiuntamente; nonché (iv) la sottoscrizione di accordi attuativi a definizione dei reciproci ruoli nello svolgimento di ciascuna procedura congiunta.
 
Il protocollo è valido per cinque anni e rinnovabile e si inserisce nel vasto panorama dei protocolli di intesa per il coordinamento tra AGCM ed autorità finanziarie, tra cui si ricordano il protocollo 2 aprile 2007 per il coordinamento anche mediante lo scambio di informazioni, il protocollo 9 giugno 2010 in materia di educazione finanziaria, ed il protocollo 14 giugno 2012 ai fini dell’applicazione del c.d. divieto di interlocking.
 
Riccardo Fadiga